mercoledì 9 settembre 2015
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Non esiste, nella Chiesa, un "governo dei tecnici". Il governo della Chiesa è affidato ai Pastori. Un conto è disporre delle competenze necessarie, altra cosa è farsi sostituire. In materia attinente alla salvezza delle anime e al bene dei fedeli, non si deve dare neppure l’impressione che il potere di «legare e sciogliere» affidato ai Successori dell’Apostolo Pietro («per compiere nella Chiesa l’opera di giustizia e di verità») possa essere limitato, o addirittura assunto in proprio, da un dispositivo separato, o addirittura parallelo. La suprema e universale potestà "delle chiavi" affidata al ministero petrino, nella Chiesa, «afferma, corrobora e rivendica quella dei Pastori delle Chiese particolari». In forza di questa titolarità, derivata dalla successione apostolica, essi «hanno il sacro diritto e davanti al Signore il dovere di giudicare i propri sudditi». Il primo asse portante delle disposizioni di papa Francesco segna la linea di coerenza di questo principio, anche nell’ambito dei processi giudiziali che riguardano le cause di annullamento matrimoniale («Affinché sia finalmente tradotto in pratica l’insegnamento del Concilio Vaticano II»). È dunque un pilastro dell’ecclesiologia che deve essere rimesso in onore e in evidenza, non una semplice faccenda di procedure da aggiustare. Tutte le istituzioni della Chiesa, «pur sempre perfettibili», non devono mai perdere di vista - nemmeno nelle questioni più difficili, nemmeno nei dettagli più tecnici - il loro ordinamento sovrano, dettato dallo «scopo essenziale della Chiesa»: comunicare la grazia divina, non ostacolarla. Di questo ordinamento, ossia della dedizione e del giudizio che esso richiede, i Pastori sono sempre responsabili, con titolarità unica e insostituibile. La decisione di Francesco, che ricompone e articola intorno a questo principio di responsabilità l’intero disegno di riforma della disciplina canonica, mostra chiaramente la sua intenzione profonda. Non si tratta semplicemente di snellire le procedure, o di semplificare i passaggi. Si tratta di assicurare la qualità ecclesiale degli atti e dei rapporti che sono in gioco. Perché non diventino questioni di cavilli che li avviliscono, o materia di prestigio e di lucro per azzeccagarbugli. La titolarità pastorale e giudiziale del Vescovo garantisce, e rende evidente, la natura ecclesiale che questo passaggio difficile e delicato deve conservare. L’esercizio diretto del ministero episcopale deve introdurre fin dall’inizio la percezione di un giudizio ecclesiale dove il discernimento e la cura, la valutazione e l’accompagnamento, la serietà e la comprensione non si muovono su registri separati.Essi si armonizzano, puntando seriamente all’essenziale, in un contesto di saggezza e di prossimità della Chiesa, che il discernimento e il giudizio dei Pastori tiene al riparo di una «giusta semplicità».L’esercizio dell’autorità giudiziale del Vescovo, indissociabile dalla sua dedizione pastorale, deve disinnescare l’inutile accumulo di un senso di distanza, di disorientamento e di incertezza, e persino di esasperazione e di risentimento, che finiscono per mettere a rischio il rapporto fiduciale con la Chiesa al cui giudizio ci si è affidati. E persino la fede, che potrebbe esserne ravvivata o addirittura ritrovata. Questo tema dell’affidamento alla Chiesa, in cui è certamente in gioco la fede, e che del resto è una componente decisiva del sacramento cristiano del matrimonio, ci conduce ad apprezzare il rilievo di una seconda architrave del nuovo dispositivo giudiziale e pastorale. L’incoraggiamento a iscrivere più chiaramente il discernimento giudiziale nell’ambito dell’autorità pastorale non è destinato a rendere più "leggero" il riconoscimento di nullità, ma a rendere semmai più "grave" la responsabilità della Chiesa. Si tratta di far percepire chiaramente a tutti che la comunità di fede è profondamente coinvolta nella celebrazione del sacramento del matrimonio e nell’istituzione coniugale che esso incorpora nella Chiesa. Dove le condizioni necessarie per questo legame sono mancate, la Chiesa non vuole lasciare nell’incertezza e prolungare l’ambiguità, mettendo in stallo la vita dell’intera comunità. La misericordia, qui, significa dunque porre ogni sollecitudine nel portare onestamente alla luce un vuoto di serietà e di rigore di un atto che ha mancato l’appuntamento con la grazia. E pertanto, con la stessa lucidità, attivare ogni prossimità pastorale capace di restituire alla grazia il suo reale contesto di fede, di fedeltà e di libera obbedienza al comandamento del Signore. I due momenti della stessa Misericordia (che viene dal Signore, «Giudice clemente e Pastore delle nostre anime») sono strettamente connessi: se non sono uniti, si svuotano entrambi. Il Papa, urgendo la riappropriazione pastorale dell’autorità giudiziale, parla di «vicinanza» della Chiesa, e anche di «conversione» dei Vescovi allo spirito e alla lettera del nuovo dispositivo. Non aggiunge al Vescovo un potere nuovo, gli restituisce pienamente quello che ha già. Il potere di giudicare delle disposizioni con le quali ci si rivolge alla grazia del sacramento, il potere di amministrare la misericordia che consente di ritrovarle. Non uno iota di più, non uno iota di meno.
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